Riflessioni inutili di fine concorso
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Riflessioni inutili di fine concorso
Vada per il feedback comunicativo: che poi somiglia molto a quel metodo che – tante decadi addietro – frequentava il mio anziano professore di lettere. Al minimo accenno di distrazione bloccava di colpo la sua spiegazione, provocando in noi studenti un rinculo di terrore. Dunque, in un silenzio di gelo, rivolgeva allo sventurato colto in flagranza di alienazione la terrificante domanda: “Ripeti le ultime parole che ho detto…”. E non c’era mai verso – per inciso – di indovinare quelle maledettissime, ultime parole.
Vada anche per il cooperative learning, che ricorda molto anch’esso pratiche antiche: i lavori di gruppo, i cartelloni delle scuole medie imbrattati di colla, di foto e di colori. Profeti inconsapevoli di tale nuova didattica erano i professori di educazione tecnica: strani personaggi a metà tra il docente e il proletario senza coscienza, beatamente invischiatosi nelle panie dell’impiego statale. Chi l’avrebbe mai detto che – oggetto di lazzi irriverenti – si sarebbero presi questa rivincita sul nostro giovanile e crudele dileggio?
Vada pure dunque per questa nuova didattica che di nuovo non ha molto, se non la scialbatura di qualche anglismo.
Ma quando tanti giorni fa un candidato – che ricordava invero più un venditore di pentolame che un docente – interrogato sulla conversione dell’Innominato l’ha definita, con enfasi da imbonitore, una conversione step by step, ho temuto che il dio giansenista lo atterrasse lì, all’istante, incenerendolo tra una slide e un’altra. Invece il candidato è stato graziato – sentieri imperscrutabili della Provvidenza – con un miracoloso quaranta.
Povero Manzoni, e il suo laborioso, infaticabile risciacquare i panni in Arno per vederseli poi nuovamente lordati nel Tamigi o nell’Ohio. Povero testo, soprattutto: l’inquietudine dell’Innominato che può già dirsi confusa paura, rugumata durante l’attesa di Lucia; la sua incerta conversione che germoglia faticosamente tra l’orrore di sé (e del proprio recente passato) e lo spiraglio di una speranza che fatica a schiudersi; e il Nibbio con la sua inedita, imbarazzata compassione; e la vecchia e le sue cicatrici da vittima incallitesi in una stizza da carnefice. Tutto quanto – le sfumature, la molteplicità dei personaggi e degli stati d’animo, la ricchezza della scrittura che genera a sua volta ricchezza di emozioni alla lettura – piallato brutalmente da una formuletta da motivatore aziendale, enfatica e ruffiana: step by step.
Ora, capisco che agli studenti potrebbe persino piacere una presentazione di questo tipo: è una spiegazione facile e sintetica, persino – nella sostanza – non del tutto errata. Perché affannarsi a leggere ed elaborare uno scritto, quando ti viene smerciato un distillato a buon mercato, semplice da ricordare?
Mi chiedo tuttavia se davvero sia questo il senso della docenza: se davvero si renda un buon servigio ai nostri ragazzi, con questo voler a tutti i costi semplificare le nozioni intorno ad autori e testi. Mi chiedo, cioè, se il dovere (etico, deontologico) di un insegnante non sia piuttosto quello di mettere in guardia gli studenti dalle eccessive semplificazioni: abituarli alla complessità della letteratura per renderli capaci di leggere, accettare e – nel migliore dei casi – decodificare la complessità della realtà in cui sono immersi.
Sbolliti gli entusiasmi, le delusioni, le recriminazioni che immancabilmente il concorsone susciterà, qualcuno si dovrà pur porre il problema più generale di come formare i docenti e di come selezionarli: le scuole di specializzazione, i vari itinera formativi e (men che mai) i vari master/corsi di perfezionamento comprati un tanto al chilo (o al credito) non credo abbiano prodotto risultati poi così confortanti.
Dirò probabilmente qualcosa di molto impopolare, ma – eccezion fatta per un picco ristretto di eccellenza – la nuova classe di insegnanti non mi sembra affatto migliore della precedente. Forse sto diventando reazionario, ma inizio, non senza disagio, a covare – dinanzi ai dogmi della nuova didattica maldestramente declinati nei molti colloqui cui ho assistito, dinanzi anche a molti post che spigolo di tanto in tanto tra le pagine di questo forum – un’inconfessata nostalgia per quei vecchi professori che pure da studente contestavo. Inizio a rimpiangere quell’insegnamento frontale che tuttavia permetteva al ragazzo – anche nelle fisiologiche asperità di un conflitto generazionale – di crescere autonomamente.
Io stesso – quando mi ritrovo a confrontarmi con mia madre, docente di lettere in un’era pre-avvertenzegenerali – mi sento inadeguato rispetto alla sua preparazione e alla sua professionalità. E questo - pur con tutto l'affetto che nutro per mia madre - non mi sembra un buon segno di progresso.
Vada anche per il cooperative learning, che ricorda molto anch’esso pratiche antiche: i lavori di gruppo, i cartelloni delle scuole medie imbrattati di colla, di foto e di colori. Profeti inconsapevoli di tale nuova didattica erano i professori di educazione tecnica: strani personaggi a metà tra il docente e il proletario senza coscienza, beatamente invischiatosi nelle panie dell’impiego statale. Chi l’avrebbe mai detto che – oggetto di lazzi irriverenti – si sarebbero presi questa rivincita sul nostro giovanile e crudele dileggio?
Vada pure dunque per questa nuova didattica che di nuovo non ha molto, se non la scialbatura di qualche anglismo.
Ma quando tanti giorni fa un candidato – che ricordava invero più un venditore di pentolame che un docente – interrogato sulla conversione dell’Innominato l’ha definita, con enfasi da imbonitore, una conversione step by step, ho temuto che il dio giansenista lo atterrasse lì, all’istante, incenerendolo tra una slide e un’altra. Invece il candidato è stato graziato – sentieri imperscrutabili della Provvidenza – con un miracoloso quaranta.
Povero Manzoni, e il suo laborioso, infaticabile risciacquare i panni in Arno per vederseli poi nuovamente lordati nel Tamigi o nell’Ohio. Povero testo, soprattutto: l’inquietudine dell’Innominato che può già dirsi confusa paura, rugumata durante l’attesa di Lucia; la sua incerta conversione che germoglia faticosamente tra l’orrore di sé (e del proprio recente passato) e lo spiraglio di una speranza che fatica a schiudersi; e il Nibbio con la sua inedita, imbarazzata compassione; e la vecchia e le sue cicatrici da vittima incallitesi in una stizza da carnefice. Tutto quanto – le sfumature, la molteplicità dei personaggi e degli stati d’animo, la ricchezza della scrittura che genera a sua volta ricchezza di emozioni alla lettura – piallato brutalmente da una formuletta da motivatore aziendale, enfatica e ruffiana: step by step.
Ora, capisco che agli studenti potrebbe persino piacere una presentazione di questo tipo: è una spiegazione facile e sintetica, persino – nella sostanza – non del tutto errata. Perché affannarsi a leggere ed elaborare uno scritto, quando ti viene smerciato un distillato a buon mercato, semplice da ricordare?
Mi chiedo tuttavia se davvero sia questo il senso della docenza: se davvero si renda un buon servigio ai nostri ragazzi, con questo voler a tutti i costi semplificare le nozioni intorno ad autori e testi. Mi chiedo, cioè, se il dovere (etico, deontologico) di un insegnante non sia piuttosto quello di mettere in guardia gli studenti dalle eccessive semplificazioni: abituarli alla complessità della letteratura per renderli capaci di leggere, accettare e – nel migliore dei casi – decodificare la complessità della realtà in cui sono immersi.
Sbolliti gli entusiasmi, le delusioni, le recriminazioni che immancabilmente il concorsone susciterà, qualcuno si dovrà pur porre il problema più generale di come formare i docenti e di come selezionarli: le scuole di specializzazione, i vari itinera formativi e (men che mai) i vari master/corsi di perfezionamento comprati un tanto al chilo (o al credito) non credo abbiano prodotto risultati poi così confortanti.
Dirò probabilmente qualcosa di molto impopolare, ma – eccezion fatta per un picco ristretto di eccellenza – la nuova classe di insegnanti non mi sembra affatto migliore della precedente. Forse sto diventando reazionario, ma inizio, non senza disagio, a covare – dinanzi ai dogmi della nuova didattica maldestramente declinati nei molti colloqui cui ho assistito, dinanzi anche a molti post che spigolo di tanto in tanto tra le pagine di questo forum – un’inconfessata nostalgia per quei vecchi professori che pure da studente contestavo. Inizio a rimpiangere quell’insegnamento frontale che tuttavia permetteva al ragazzo – anche nelle fisiologiche asperità di un conflitto generazionale – di crescere autonomamente.
Io stesso – quando mi ritrovo a confrontarmi con mia madre, docente di lettere in un’era pre-avvertenzegenerali – mi sento inadeguato rispetto alla sua preparazione e alla sua professionalità. E questo - pur con tutto l'affetto che nutro per mia madre - non mi sembra un buon segno di progresso.
fabio2- Messaggi : 130
Data d'iscrizione : 31.10.12
Re: Riflessioni inutili di fine concorso
Ho anch'io le stesse perplessità. Io che mi sono formata a suon di lezioni frontali dai tempi biblici, valutazioni punitive (altre che imparare ad imparare), pomeriggi interi chiusa in casa a ingoiare pagine e pagine e ancora pagine... adesso dovrei avere una preparazione inadeguata (essendo frutto di una strategia di insegnamento inadeguata).
Il problema è che io inadeguata non mi sento, anzi guardo con estremo sospetto tutte queste "coccole" didattiche che dovremmo riservare ai nostri figli/studenti.
Il problema è che io inadeguata non mi sento, anzi guardo con estremo sospetto tutte queste "coccole" didattiche che dovremmo riservare ai nostri figli/studenti.
Ospite- Ospite
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